COME UN'INTRODUZIONE - 1
“A Roma la via prediletta è quella dell’azione politica, a Milano prevale il tentativo di liberarsi
attraverso i gruppi di autocoscienza.”
La mia esperienza nel movimento delle donne, però, mi porterebbe a ribaltare questa affermazione; anche se, è ovvio, le due vie battute dal femminismo d’allora (secolo scorso!) non si possono separare nettamente secondo la geografia. La fotografa Paola Agosti e la giornalista Benedetta Tobagi hanno firmato Covando un mondo nuovo - Viaggio tra le donne degli anni Settanta (Einaudi): una raffinata, efficace carrellata di immagini e commenti (fra i quali la frase citata all'inizio) che ha il pregio di non limitarsi al racconto del filone più folcloristico, effervescente, creativo, provocatorio, e duro (divorzio, aborto) delle battaglie femminili (i cortei, gli slogan, gli striscioni), ma include e sottolinea il grande risveglio collettivo delle donne: quelle dell’Udi, che sfilano sullo sfondo del Colosseo in una foto iconica di Paola (11 marzo 1973), quelle impiegate in fabbrica come nei campi, negli uffici - sorridenti segretarie, non di più -, quelle rinchiuse nel lavoro a domicilio, e le casalinghe.

Dicevo, seppure la pratica dell’autocoscienza sia stata più forte a Milano, io - che studiavo a Roma, alla Sapienza, - ho fatto questo stesso percorso in un gruppo che si riuniva in via del Governo Vecchio, un gruppo di una quindicina di donne sedute in circolo in una stanza disadorna, a parlare di cose nostre, insieme con Manuela Fraire, oggi nota psicoanalista: la figura più carismatica di questa inattesa esperienza. E certamente - saltando subito a una delle principali conclusioni - il linguaggio comune delle storie raccontante là dentro stava da subito agli antipodi rispetto a quello praticato da una studentessa di Lettere (io), una lettrice forte, soprattutto di saggistica, abbastanza interessata alla politica. Spiazzante! Così mi ritrovavo fra intellettuali, lavoratrici, madri, mogli, casalinghe, senza filtri come l’età o il titolo di studio o l'estrazione sociale; eppure c'era un minimo comun denominatore nel modo diretto in cui parlavamo; soprattutto, c'era un luogo riservato a noi.

Un implicito omaggio a quel modo di conoscersi e conversare fra donne sta nel più recente scritto di Alessandro Giammei, Parlare fra maschi (Einaudi), uno dei “figli sani del patriarcato”, come direbbe Elena Cecchettin, (ma in senso positivo), il quale addita tanti stereotipi di genere e sa ribaltarli in modo originale: parla di ritrovarsi, fra uomini, come sorelli, mettendosi in circolo per confrontarsi guardandosi negli occhi - chiaro invito alla sincerità e all'introspezione - anziché ritrovarsi per rivolgersi tutti da una sola parte, verso la tv per la partita (di tennis?), o verso uno schermo per un film o un videogioco; oppure guardando avanti da un’automobile on the road, sì, forse confidandosi, ma come se parlasse qualcun altro, o la radio.
Mettere le sedie in circolo - come in una delle foto di Paola Agosti alla Casa delle donne - è già un cambiamento. E mi ricordo di una volta, già alle scuole superiori, ancora a Como, quando una delle prime richieste della mia classe, durante un’occupazione, fu quella di spostare tutti i banchi in cerchio, non più rivolti verso la cattedra: l’insegnante uno di noi. Altra esigenza sostenuta con forza fu quella di ... studiare TUTTI I Sepolcri di Ugo Foscolo! Non solo qualche brano, con l'ambizione di arrivare a una conoscenza complessiva più organica e profonda: morte al nozionismo, insomma... beata gioventù...

Anni dopo, cominciai l’università con lo stesso piglio, decisa a non perdermi niente di questo microcosmo pieno di stimoli culturali tra i quali poter spaziare, scegliere, nei quali immergermi.
La mattina del 17 febbraio 1977 arrivavo con i miei libri nella borsa di Tolfa (in quegli anni ho avuto la fortuna di abitare non lontano dalla Sapienza, mi muovevo sempre a piedi, frequentavo tutti i giorni e andavo a studiare alla biblioteca Alessandrina), abbastanza spensierata. Ricordo benissimo come rimasi sorpresa nel ritrovarmi ai margini di un gruppo di scalmanati che ce l’avevano con il segretario della Cgil, Luciano Lama, arrivato per un comizio, protetto dal servizio d’ordine del sindacato e del Pci, mentre i sovversivi, i cosiddetti indiani metropolitani, scandivano i loro slogan creativi (“i lama stanno nel Tibet” o “non Lamanessuno”). Protestavano contro il governo Andreotti, contro i sacrifici, la polizia.
Tutto in breve degenerò, il segretario lasciò il palco (questo viene ricordato come “la cacciata” di Lama dall’Università), scontri nelle vie intorno alla Sapienza, occupazione della facoltà di Lettere, poi Economia e commercio, Architettura a Valle Giulia.
...
Ho concluso i miei studi con una laboriosa tesi di laurea, dal percorso avventuroso e divertente. I miei nipoti mi chiedono di raccontargliela! Ma questo è venuto molto dopo quel giorno di febbraio, quando decisi di impegnarmi ancora di più nello studio, nel frequentare lezioni e seminari (lezioni di italiano con Natalino Sapegno, poi Carlo Salinari, e Carlo Muscetta, mio relatore; lezioni di inglese con Agostino Lombardo, e con Giorgio Strehler che, su invito del professore emerito, venne a leggerci gli appunti di regia per la messa in scena della Tempesta di Shakespeare!); ma trovai il tempo per le assemblee politiche, le manifestazioni, e i pomeriggi in via del Governo vecchio, in un piccolo gruppo di autocoscienza, scoperto per caso.

Il personale è politico fu uno degli slogan più fortunati e significativi di quegli anni. Forse non a caso, anche le donne iraniane che oggi partecipano al movimento "Donna, vita, libertà", danno alla rivendicazione dei diritti personali lo stesso senso, che il sociologo Assef Bayrat aveva già riassunto nel messaggio "la vita come politica". All'inizio della Guerra dei 12 giorni (secondo il verbo di Trump), dal 13 al 24 giugno 2025, ho iniziato a leggere L'Iran in fiamme, dello storico esule Arash Azizi (Solferino, 2024). Infatti seguivo la cronaca, ma quando il susseguirsi di affermazioni, smentite, probabili fake news del triumvirato Trump-Netanyahu-Khamenei non sembrava più attendibile ho cercato di fare un passo indietro e affrontare il contesto.
Non meravigli che un libro sul movimento delle donne in Iran sia scritto da un uomo. Leggendo, si comprende bene come tutta la società della nazione shiita sia in subbuglio da decenni, contro la repressione del governo teocratico, la "malvagia dittatura", e contro la depressione economica.
Il punto di partenza del saggio, una vera scintilla da cui si sprigiona un incendio, è la reazione popolare contro l'hijab obbligatorio, dopo l'uccisione a Teheran di Mahsa Amini, 22 anni, di origine curda, arrestata dalla polizia e picchiata a morte in un pomeriggio di settembre del 2022. La parola chiave, fin dai titoli dei capitoli, è lotta. Quella contro il velo, quella per i diritti delle donne in senso ampio, ma anche le lotte dei lavoratori e del sindacato, le battaglie per l'ambiente (che rivelano una cultura e una sensibilità popolare non comune verso questi temi), per la libertà d'espressione, e per una vita normale. Una lettura da cui non è facile staccarsi, scorrevole, e che cattura soprattutto per l'insostenibile dialettica fra la tenacia degli iraniani e le durissime repressioni dei guardiani della rivoluzione, altrimenti detti pasdaran.

Ginevra Bompiani e Luciana Castellina - due voci da decenni sempre giovani nel dibattito politico e femminile - dialogando raccontano le loro esperienze nel movimento delle donne (Il femminismo della mia vicina, +manni, 2025). Curiose, agguerrite, osservano anche il presente, e definiscono quello iraniano di cu si diceva "un femminismo essenziale, formidabile". ... "La vera battaglia femminista, quella nuova, fresca e con un avvenire, è quella delle donne islamiche" (Castellina). Bompiani risponde che "è una battaglia che sembra indietro di cent'anni. Ma questa arretratezza non è necessariamente uno svantaggio perché il nostro femminismo è andato a finire male... Le donne fanno tutto quello che fanno gli uomini, è vero! Ma lo fanno come loro!".
Il tema di cui si discuteva al Governo Vecchio era in fondo la felicità. Infatti la parità, dopo l'entusiasmo per i diritti acquisiti fin dai tempi delle sufragette americane - voto, lavoro -, a partire dalla metà del Novecento comincia a lasciare l'amaro in bocca. Si voleva solo questo? Solo la parità? E la maternità, il corpo, la sessualità, i bisogni specifici dell'altra metà del cielo, la creatività? Così diventava impellente mettersi in ascolto di se stesse, senza interferenze di voci e modelli maschili, per condividere con altre donne il cosiddetto separatismo, il processo di autocoscienza, faticoso. Anche perché bisognava prima di tutto trovare "le parole per dirlo".
(1- continua)

