SENILITA'
A proposito dell’inverno demografico, per alcuni ormai una glaciazione irreversibile, una risatina apotropaica mi viene spontanea alla lettura di un’affermazione ormai largamente condivisa; e cioè che il problema sia di fronte a un "bivio ineludibile": reagire con mille strumenti per tornare, faticosamente, a crescere, o condannarci a un declino definitivo.
Questo, in sintesi, nella presentazione di Crisi demografica, titolo del 2021, autore Alessandro Rosina, un’autorità su questo tema. La materia che riguarda oramai tutto il mondo, spicca per complessità soprattutto l’Italia, il Bel Paese dei primati negativi sulla natalità, gli aiuti alle famiglie, le politiche sul lavoro, gli incentivi per i figli e così via.
Tra i continui aggiornamenti/allarmi, Carlo Cottarelli, sul Corriere della Sera del 18 agosto, parla chiaro: secondo i dati Istat, le proiezioni sul 2025 prevedono "340.700 nati contro i 370.000 del 2024”. Un vero e proprio tracollo, scrive, se si considera che la discesa è iniziata negli anni Settanta (fino agli anni Sessanta del secolo scorso i nati in Italia ogni anno superavano i 900.000! Ma erano i cosiddetti "Trenta gloriosi", i tre decenni dopo la Seconda guerra, col boom economico e il baby boom). E le cause, come spiega benissimo anche Rosina, sono il minor numero di figli per donna, ma soprattutto - oggi come oggi - proprio per la costante e pluridecennale decrescita, il minor numero di donne potenziali madri: una tempesta perfetta.
Cottarelli invoca una strategia di lungo periodo sull’immigrazione, “non semplicemente decisioni sul numero di permessi nel successivo triennio, come avvenuto finora”; e una strategia per contrastare la denatalità. Lapidario conclude che “sia come sia, al momento non abbiamo una chiara strategia in nessuna delle due direzioni: conseguentemente tanto il problema dell’immigrazione quanto quello della natalità restano irrisolti”.
Infatti, la risatina nervosa è causata dalla mia convinzione che le politiche sul tema “ineludibile” saranno eluse.
Troppe resistenze culturali, politiche asfittiche spacciate per magnifiche sorti e progressive, soprattutto la stessa senilità (mentale) di noi italiani.

Alla ripresa del palinsesto invernale di Radio 24, il direttore del Sole, Fabio Tamburini, ha parlato della crisi demografica come del problema principale che ci troviamo a fronteggiare noi italiani (soprattutto noi italiani), prossimi, se non già arrivati, al punto di non ritorno, e senza particolari capacità di reazione. “Così muore un Paese!” conclude, ed è difficile dargli torto: sono le statistiche a parlare. Non che manchino le idee per invertire la rotta. Sul Corriere della Sera del 25 settembre, Stefano Paleari - ingegnere ed economista - e Ferruccio Resta - ingegnere, ex rettore del Politecnico di Milano - citano le proiezioni al 2040 sulla natalità e l’andamento demografico. Se quest’anno si festeggia la nascita di 350.000 bambini, bisogna ricordare che 20 anni fa erano 550.000; di conseguenza, su una popolazione di 59 milioni di persone, oggi gli over 65 sono il 24 per cento, e nel 2040 saranno il 32 per cento. Le matricole all’Università - scrivono gli autori - nel 2040 “potranno ridursi di quasi il 40 per cento dai valori attuali”.
"La partita non è persa" è il titolo di questo articolo, che infatti organizza in modo convincente alcune possibili contromisure, sul piano delle pensioni, della sanità, delle dinamiche familiari. Cito: “L’esempio della mancanza di conducenti del trasporto pubblico è un sintomo inequivocabile dell’esigenza di una accelerazione delle tecnologie per la guida assistita e autonoma dei mezzi. Esoscheletri, realtà virtuale e droni saranno strumenti indispensabili per la nuova e ridotta forza lavoro.” Anche la sanità deve prontamente riorganizzarsi per l’invecchiamento della popolazione. “E sulla digitalizzazione, il fatto che un cittadino italiano sia ‘un paziente ignoto’ al di fuori della sua Regione, non si può più accettare. Sarebbe come dire che il data base di Ryanair è più ricco di quello dello Stato italiano.”
E poi le “dinamiche familiari e migratorie”, il nodo più difficile, sempre secondo gli autori, che continuano: “Ma ci permettiamo di riprendere la proposta, presentata a Cernobbio, di inserire un’agenda di Governo per il richiamo di studenti e docenti universitari internazionali, che permetterebbero una crescita delle nostre università (anche nei ranking) innescando un ciclo virtuoso di attrattività di immigrazione qualificata. L’immigrazione è una prova della capacità della democrazia di salvaguardare contemporaneamente diritti e regole.” E questo, considerato l’attuale clima politico, mi sembra il punto più ostico da affrontare, anche se cerco di non cadere in depressione perché tale nodo come concludono gli autori, "per un Paese è l’anticamera della recessione".

Francamente, per adesso, i molti articoli che propongono soluzioni, secondo me tutte sensate e condivisibili, mi paiono voci che gridano nel deserto. L’economista Roberto Antonio Romano su Domani del 6 settembre definisce il calo demografico come la causa della mancata crescita italiana. Sì, l’Italia si distingue sempre in negativo: “Tra il 1990 e il 2024 ha perso quasi due milioni di persone in età lavorativa. …tradotto in termini economici, equivale a circa 40 miliardi di Pil potenziale svanito."
"Da trent’anni la produttività ristagna, incapace di recuperare i 40 miliardi di reddito mancato. Questo significa che non solo abbiamo meno lavoratori, ma che ognuno di essi produce meno rispetto ai colleghi europei.”
Secondo Romano su questi temi il dibattito pubblico “è quasi inesistente. Politica e istituzioni preferiscono concentrarsi su misure con effetti immediati…”: il piccolo cabotaggio, direi io, di incentivi a pioggerellina, per la natalità (Family card), le imprese (cuneo fiscale), l’ingresso di manodopera straniera (click day decreto flussi).
Richiederebbe un consenso plebiscitario e uno sforzo immane invertire la rotta di questa glaciazione: con meno donne che scelgono la maternità, o meno figli, e meno donne in assoluto; sempre meno lavoratori occupati e conseguenti sempre meno risorse economiche; un’immigrazione insufficiente anche se fosse favorita, organizzata, istruita; per adesso i flussi migratori non bilanciano il calo demografico.
Sui giornali leggo cifre sempre più preoccupanti (indubbiamente la stampa nazionale ha cominciato a parlare della riduzione della popolazione con maggiore frequenza): il rapporto Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) 2025 riporta che nel 2060 l’Italia avrà 12 milioni di lavoratori attivi in meno.

Sul Sole del 26 settembre i giornalisti Giorgio Pogliotti e Claudio Tucci ci dicono che intanto, anno 2025, le culle vuote dipendono anche dai giovani Neet: 1 milione 400.000, che non studiano, non lavorano, quindi con scarse prospettive di formare una famiglia e/o avere figli (e quindi sempre meno nascite per le generazioni future). Le donne inattive, poi, cioè fuori dal mercato del lavoro, al primo gennaio 2024 erano 7 milioni 800.000. Tra le varie ragioni di questo disastro, quello principale pare essere la cura familiare: cioè la necessità di occuparsi dei figli e degli anziani, un dato purtroppo in crescita, secondo una ricerca Cisl. "Fin qui - scrivono gli autori - le misure messe in campo dal governo non hanno inciso particolarmente."
Secondo l'Inps (nella stessa pagina del Sole) i dati sull'occupazione del primo semestre 2025 sono scesi del 2,6 per cento rispetto allo stesso periodo 2024; perché gli unici contratti in crescita sono quelli stagionali e intermittenti.
Se è vero che l'inverno demografico è ormai un problema globale (il calo delle nascite interessa tutto il Mondo: nel 2100 il 97 per cento dei Paesi del globo ne sarà toccata), l'Italia ha il primato di essere in caduta libera.
Tornando al saggio di Alessandro Rosina, ecco la senilità che avanza, secondo me il tratto più italiano della questione. "Siamo stati ... il primo Paese al mondo a vedere gli under 15 superati dagli ultra 65enni." In Europa, "l'Italia è il Paese con più persistente bassa fecondità". Secondo l'autore, i margini di recupero nel nostro Paese sono ampi, dato che "l'Italia parte dal maggior sottoutilizzo in Europa della componente sia giovanile (detiene il record di Neet ...) sia femminile.

Tuttavia i giovani - per il futuro dei quali si dovrebbe avere l'attenzione maggiore - non sono considerati più di tanto: a una certa politica conviene. In una lettera al quotidano Domani (venerdì 5 settembre) Francesco Sannicandro fa notare il nesso fra invecchiamento degli abitanti e scelte politiche e sociali. "Una società più vecchia, per definizione, vota in modo più conservatore." Lo si è visto con la Brexit, ricorda.
A favore dell'uscita dall'Eu votò il 52 per cento degli elettori britannici; per il Remain si pronunciò il 48 per cento, la differenza fu di un milione di voti circa. Era il 23 giugno 2016. Gruppi sociali più istruiti e giovani - secondo analisi statistiche del sito della Bbc - hanno preferito il Remain, più nelle città che nelle campagne; altre interessati analisi evidenziano anche la scarsa partecipazione al voto dei più giovani. Gli ultra 65enni hanno votato per l'83 per cento (e il 60 per cento ha votato per l'uscita), mentre solo il 36 per cento della fascia 18-24 anni (Sky data) si è pronunciata. I Neet non studiano, non lavorano, e troppo spesso neppure votano.
Oggi, a 10 anni di distanza da quel voto (l'uscita effettiva è del 2020), prevalgono ripensamenti e rimpianti, ma il "dossier" non sarà ripreso in mano.
Tornando all'Italia, e al saggio di Alessandro Rosina, ampio dossier ricchissimo di dati, uno dei capitoli più inquietanti riguarda il nostro scarsissimo sostegno alla transizione scuola-lavoro. Infatti l'inserimento attivo nel mercato dell'occupazione è ovvio presupposto - come già accennato - alla stabilità necessaria per pensare a un figlio. Invece, il percorso lavorativo è sempre più inceto e precario, e tardivo. "E' un dato di fatto che l'Italia sia entrata in questo secolo con investimenti in formazione terziaria, in politiche attive del lavoro, in ricerca, sviluppo e innovazione, persistentemente più bassi rispetto alla media europea".
"Il tasso di Neet è la principale misura di quanto un Paese dilapida il potenziale delle nuove generazioni, a scapito non solo dei giovani stessi ma anche delle proprie possibilità di sviluppo e benessere." Siamo tra i peggiori in Europa: con un divario di 10 punti percentuali rispetto alla media europea, nella fascia 15-34 anni. I nostri giovani escono quindi di casa, diventano autonomi, intorno ai 30 anni; in Francia, Germania, Scandinavia intorno ai 25.
Questa pioggia di dati, coerente con le difficoltà anche femminili sull'occupazione, il sostegno alla cura dei figli, indica poi un tendenza al peggioramento, accompagnata da una logica di aggiustamenti al ribasso. L'Europa, per esempio, considera cruciali i servizi all'infanzia. Rosina ricorda che nel 2002 il Consiglio europeo "ha stabilito come obiettivo per 2010 quello di arrivare almeno al 33 per cento di copertura dei nidi (posti disponibili sul potenziale di utenza) sotto i 3 anni di età. Tale obiettivo non è stato raggiunto dall'Italia né nel 2010 e nemmeno nel 2020".

L'innovazione industriale, la tecnologia, i robot, l'intelligenza artificiale, si diceva sopra. Eppure l'urgenza qui e ora pare la mancanza (cronica), nelle aziende, di addetti: più e meno qualificati. Nel prossimo quinquennio - soprattutto per l'uscita dei più anziani dal posto di lavoro, il 90 per cento - serviranno fino a 3,7 milioni di figure (3,3 milioni se l'andamento dell'economia rallenterà): così in prima pagina del Sole 24 Ore del 20 luglio, a firma Claudio Tucci. Tuttavia i nuovi occupati potrebbero essere solo 679 mila nell'ipotesi migliore. I dati provengono da Unioncamere con il ministero del Lavoro. Proprio al presidente di Unioncamere Andrea Prete il giornalista chiede un parere sull'allarme denatalità per le imprese. Ovviamente, dichiara Prete, la prospettiva di avere nel 2050 un terzo della popolazione over 65 non è sostenibile, né "per lo sviluppo, per il welfare, per i conti pubblici". Per le imprese questo significa anche mancanza di competenza e profili professionali all'altezza. Servono adeguati percorsi di istruzione e una politica che incentivi "il rientro dei giovani che si sono trasferiti all'estero. Tra il 2019 e il 2023 sono espatriati quasi 200 mila 25-34enni, 58mila dei quali laureati". E poi, il 21,1 per cento del fabbisogno riguarda lavoratori stranieri, come reperirli? chiede Tucci. Secondo Prete, oltre a programmare e controllare gli ingressi bisogna pensare a percorsi di formazione già nei Paesi d'origine "e provvedere a fornire un alloggio a quanti verranno a lavorare in Italia".

"Buttarla" solo sul problema degli immigrati (il politologo Dario Fabbri suggerisce di smetterla di chiamarli 'migranti', perché non sono di passaggio, la maggior parte sono qui per restare) non è sano. Le politiche che suggerisce il professor Rosina toccano in modo globale lo Stato sociale, donne, famiglie, giovani, scuola, lavoro, industria, università, ricerca, ammortizzatori sociali, sanità, previdenza, pensioni, e certamente anche la gestione deghli immigrati. Suggerisce anche di valorizzare gli over 65, pensionati che potrebbero ancora produrre (menomale!), col "favorire una lunga vita attiva di successo... valorizzando la forza lavoro matura, e ottenendo di conseguenza anche più solidi e sostenibili conti pubblici". "Sempre più importante è, inoltre, la collaborazione tra generazioni. L'invecchiamento della popolazione non mette, infatti, necessariamente in competizione la permanenza dei lavoratori maturi con le opportunità dei nuovi entranti. Ciò avviene solo nele economie che non crescono."
L'Italia cresce solo dello 0,6 per cento, dati Ocse, previsioni Pil 2026 (riporta il Sole del 28 settembre), quindi bisognerebbe rimboccarsi le maniche, tutti quanti. Manca però una guida che incanali una giusta reazione corale. Altrimenti, da dove sarebbero saltati fuori tutti i giovani - e i meno giovani - che scendono in piazza, in Italia più che altrove, per la Palestina (e forse non solo per quello)? Se ne sono accorti tutti - alcuni con speranza altri con timore - che sottotraccia le manifestazioni dicono "di più". Ma mancano le menti lungimiranti, colte, capaci di fare sintesi fra i bisogni quotidiani e l'attenzione per le tragedie oltreconfine, mancano gli ideali. E cito per ora solo velocemente il saggio dello storico Aldo Schiavone, Occidente senza pensiero, il Mulino 2025. Leggo nel risvolto di copertina: "Nel cuore dell'Occidente, in Europa come in America, si è aperto un vuoto di idee senza precedenti, proprio mentre stiamo attraversando un passaggio d'epoca in cui avremmo più che mai bisogno di un nuovo pensiero."
Manca questo nuovo pensiero, manca la politica.

